sabato 17 dicembre 2016

GIORNO 48

Sabato
Stamani mi sono svegliata, come sempre, all'alba ma senza groppo in gola, solo con un po' di senso di colpa nel rendermi conto che, in tutti questi giorni, sono stata troppo occupata a star male e non ho pensato che manca solo una settimana a Natale e le bimbe hanno bisogno di normalità; così mi sono data da fare a tirar fuori albero, addobbi e lucine varie in modo che, al loro risveglio, trovassero segni tangibili della mia, spero non provvisoria, serenità.
Certo, sarà dura per loro, soprattutto per la piccoletta, passare la sera della vigilia senza di lui e svegliarsi presto la mattina di Natale per tuffarsi nel lettone dei genitori trovando un posto vuoto, ma posso inventarmi qualcosa per dare vita a nuove abitudini.
Per me il Natale è sempre stato un po' un incubo, fin da piccola. I primi anni veniva festeggiato insieme a una miriade di parenti di mio padre ( dodici tra fratelli e sorelle che si riuniscono, ognuno con i rispettivi figli, non sono uno scherzo, anzi…) e tutto quel caos mi dava solo tristezza: a noi bambini venivano dati regali presi a caso da un grosso saccone e io mi chiedevo perché Babbo Natale, tutti gli anni, ignorasse le mie richieste e lasciasse che gli adulti prendessero il suo posto. Poi, con il passare del tempo, queste riunioni familiari hanno cominciato a diradarsi, fino a sparire, insieme alla confusione assordante; il Natale lo festeggiavamo in casa fra di noi, ma l'atmosfera è sempre stata pessima, i miei genitori non sono mai andati d'accordo e non ricordo se ci sia stato mai un Natale senza litigi, ma ne ricordo uno, in particolare, senza litigi, ma molto triste, che ha segnato la mia avversione per questa festività: avevo 12 anni e mia mamma si era ammalata di cancro, all'epoca era un miracolo davvero riuscire a sopravvivere a questa bestia e, soprattutto, alle cure devastanti che ne seguivano. Visto che lei era ricoverata ancora in ospedale, da mesi, lontana, molto lontana, da casa, a lottare per sopravvivere, io e mia sorella siamo state affidate alle zie paterne, che avrebbero passato come sempre il Natale nella casa in montagna, mentre mio fratello venne affidato ai genitori del suo migliore amico. Mio padre? Libero come una farfalla passò il Natale con l'amante di turno, lontano da noi. Mi ricordo troppo bene la sera della vigilia: io e mia sorella chiuse in camera a piangere per l'immensa tristezza, non ci era permesso festeggiare alcunché visto che c'erano ospiti che, non essendo cattolici,  consideravano il Natale un giorno qualunque e le nostre simpatiche zie, per non dare un dispiacere agli invitati, avevano evitato qualunque cosa potesse assomigliare a un festeggiamento, permettendo solo alla cugina straniera di partecipare alla serata… l'ipocrisia del "è Natale, vogliamoci tutti bene" aveva sempre funzionato, ma non quella sera.
Da quella sera mi resi conto che io e mia sorella eravamo quello che rimaneva di una famiglia allo sfascio.
So bene cosa significhi quando tutto si frantuma, ma non posso tenere in piedi qualcosa che sta crollando, cercando di avere cento mani per tenere ogni pezzo al suo posto, posso solo fare in modo che il crollo non sia devastante e rovinoso, è un mio dovere.
Il senso della vita lo si capisce solo dai dolori che essa ci dà.


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